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Caro blog, tu che raccogli tutte le mie più intime fisime e il mio p0rn più improbabile. Tu che hai sempre un orecchio pronto ad ascoltarmi (anche se sembra che ti stai facendo i fatti tuoi, so che mi ascolti <3). Tu.

SPIEGAMI PERCHÉ

PERCHÉ

PERCHÉ

PERCHÉ INVECE CHE FINIRE I MIEI MOLTI WIPs che c’è gente che aspetta da un anno la conclusione di fanfiction mediocre

PERCHÉ INVECE CHE REVISIONARE LE COSE DI QUI DA RIMETTERE ANCHE SU AO3 (tipo ahem “choices we make” e una svalangata di Saint Seiya)

PERCHÉ INVECE CHE SCRIVERE QUESTI VAMPIRI P0RN che ho in testa dalla fine del COWT e che mi darebbero tanta soddisfazione

PERCHÉ

perché sto spendendo centinaia di parole di worldbuilding su una coppia di elfi gay (che non sono più nemmeno elfi) con inclusi un sistema magico, un sistema degli spiriti da domare, vari clan dai nomi improbabili, due backstories complete per Yano e Ceski, una minaccia sconosciuta, uno stronzone che odia Yano, un bimbo sacrificato al vento che sopravvive, una profezia (ovvio) e NEMMENO UN POCHINO DI P0RN perché questi sono casti e puri da quando li ho usati per la skinship del COWT e mi hanno comunicato che sono disponibili solo per bacetti, carezzine, sospiri, molte lacrime e laghi di sangue. xD

PERCHÉ???????

Pls send help.

Come al solito il COWT finisce e tu resti negletto e dimenticato per gli undici mesi successivi.

Avrei voluto fare almeno un post di statistiche ma intanto è iniziato il Camp NaNoWriMo. Ho 36 k sul groppone da portare a casa entro aprile, e li userò per buttare giù un po’ di idee che mi sono venute durante il COWT e non ho avuto tempo di scrivere.

Tipo ì VAMPIRI p0rn

O la bomba alla crema che lui si sporca, l’altro gliela lecca via e scatta il limone fortissimo (secondo le parole felici di un Calice)

O questi adorabili elfi Ceski e Yano che (gulp, plot twist) potrebbero diventare umani nel prossimo futuro.

Perché?

A parte che io non scrivo elfi (a meno che non sia monsterfucking) perché non è il mio (è necessario conoscere i propri limiti), qualcuno del mio adoratissimo server di scrittura mi ha detto che umani contro fate (dentute) è molto più jarring.

E per fisime personali, più è jarring e più mi ci rotolo grufolando come un suinetto nel fango.

Quindi avremo umani che fanno patti sanguinosi con gli spiriti per ricacciare fate dentute negli anfratti dei Monti Violetti.

Una storia d’amore super platonica fra ragazzini guerrieri un po’ alla Patrochilles (o Saint Seiya se vogliamo).

MOLTO SANGUE

E non so perché sto scrivendo questo ma è liberatorio.

Prima o poi posterò queste statistiche. Meanwhile

Per il COWT 13, W6, M3 prompt alba dei bimbi Inca for your pleasure

Sarai serpente

Sul tetto del mondo, il vento gelido le sferza la faccia. 

Non si è mai sentita così calda. 

Avanza con cautela tra gli spuntoni di pietra ancora tiepidi. Non è passato che un battito veloce del suo cuore, da quando ha divelto con un colpo di luce il totem che si ergeva al centro della terrazza, distruggendo i serpenti a guardia della vetta del vulcano. Da quando la marea di lava è montata dalle fessure del basamento rotto, fondendo il pavimento e i segni potenti incisi sulla sua superficie lucida.

Un battito del suo cuore o una vita intera. 

Le onde infinite delle cime dei monti brillano ai suoi piedi nella luce fredda dell’alba, il cratere ribollente di fuoco le scalda le gambe. Alza le braccia al cielo che s’infiamma di vermiglio e d’oro e saluta il sole come se fosse il primo.

Come se fosse rinata oggi.

Ekkeko le sorride, stretto contro il suo fianco; le frange della sua coperta rossa le carezzano le gambe. Il suo compagno silenzioso, il fratello che l’ha scortata fin qui. 

Forse senza di lui non ce l’avrebbe fatta. 

“Voi!” La voce del sacerdote la fa girare di scatto. “Com’è possibile?” Fermo di fronte alla porta del rifugio dove ha passato la notte, il vento gli agita addosso il poncho colorato come un paio d’ali. Un uccellaccio da preda, che vuole il loro sangue. I suoi occhi mandano lampi di rabbia. 

D’istinto si para davanti ad Ekkeko. Sono diventati fratelli durante l’ascesa infinita al vulcano, hanno condiviso gli ultimi giorni, convinti fossero anche gli ultimi delle loro vite. Non può abbandonarlo. Ora.

Mai.

Risente la voce pacata del nonno, che le parla delle stelle che ruotano dentro di lei, dell’universo da cui esigere potere quando si trova alle strette, e alza le mani nel gioco che lui le ha insegnato, un gioco che le ha salvato la vita, stanotte. Che forse gliela salverà ancora.

“Abbiamo visto l’alba.” Gli urla nel vento. “Siamo liberi.”

“Maleficio. Maleficio e sventura per il nostro popolo, quest’anno che il sacrificio è fallito. Solo io posso far tornare alla normalità il corso delle cose.” Il Sacerdote appoggia la pianta di un piede contro l’altro ginocchio; con la gamba piegata in aria e le braccia aperte sembra davvero un condor. Un avvoltoio, pronto a pasteggiare con i loro corpi. Un brivido le sale lungo la schiena, non sa cosa deve fare, solo che vuole andarsene da lì, viva.

Come si è conquistata di diritto, con Ekkeko al suo fianco. 

Quell’uomo non potrà impedirglielo.

Lei non si arrende.

Mai.

Non quando ha così tanto da perdere, non senza provarci. 

Stringe i denti, alza di più i pugni a proteggerle la faccia. Un’aura di luce grigiastra circonda il Sacerdote, ha la forma di un condor che cala sulla preda. 

Quindi anche lui.

È uno che ha visto l’alba?

Eppure mai nessuno. Mai, prima di loro. Così le hanno sempre detto.

Non ha importanza. Lei dovrà essere serpente, crudele e silenzioso. Strisciare nelle fessure della difesa del Sacerdote, azzannarlo col suo morso letale. 

Non sa cosa deve fare ma sa come farlo.

“Muori!” urla e il suo corpo si infiamma di luce, rapida, inarrestabile, del colore torbido del veleno peggiore. Dalle sue mani quel bagliore diventa velocità e impatto, verso il Sacerdote che la fronteggia.

 Lui sogghigna, la ferma con il palmo della mano. “Cosa credi di fare, maledetta ragazzina? Mi hai dato problemi da quando abbiamo iniziato a salire le pendici del vulcano. Ora sii obbediente una volta tanto e sacrificati per il tuo popolo.”

“Mai!” Cerca di vedere nella difesa del Sacerdote, ma è un serpente bambino contro un rapace assetato di sangue. L’uomo ride, con uno scatto del polso le rispedisce colpo su colpo. Viene sbalzata all’indietro, ogni lama di luce è un dolore nella carne, la sbatte contro i massi che delimitano la terrazza, tutta l’aria le esce dai polmoni in un singhiozzo.

“Chaska!” Il grido disperato di Ekkeko si mescola al fischio del vento. 

Lei scivola a terra senza fiato, gli spuntoni di pietra le feriscono le ginocchia. 

Non può farcela. 

Non può.

Il Sacerdote è troppo forte. Sa quello che fa. Lei.

No.

Anche se l’istinto del suo corpo è forte. Punta le mani a terra cercando di ritrovare il respiro, le treccine le scivolano davanti agli occhi. Dovrebbe rialzarsi, ma tutti i suoi nervi urlano di dolore.

“Ora è il mio turno.”  Una vampa di luce erompe dalle dita del Sacerdote, piegate ad artiglio. Lei non ha nemmeno il tempo di chiudersi a difesa, alza le mani per proteggersi il viso.

“Chaska!”

Ekkeko!

Le vola addosso, facendola cadere all’indietro. Tepore liquido le inzuppa i vestiti. “Ekkeko–” Ha gli occhi sbarrati, un rivolo di sangue gli riga il mento aguzzo. “Ekkeko!”

Non è possibile.

Lei aveva giurato di difenderlo.

Lei.

Si tira su seduta con Ekkeko stretto addosso, lo bacia sulla fronte. “Perché?” chiede e un singhiozzo le tappa la gola.

Gli occhi offuscati di Ekkeko la cercano, pozzi scuri di dolore. “Sono inutile. Chaska. Tu. No. Almeno. Ho fatto una cosa per bene.” Fa fatica a parlare, altro sangue gli cola dalla bocca. 

Morirà. 

Morirà ed è solo colpa sua. 

“Hai fatto tutto per bene, fratellino,” sussurra. “Senza di te non sarei mai arrivata qui. Guardami, ti prego, mentre mando questo bastardo a Uku Pacha.” Gli toglie i capelli neri dalla fronte; un sorriso curva le labbra di Ekkeko, macchiate di rosso. “Fatti onore. Sorellona.” I suoi occhi si chiudono piano. 

Una mano gelida di terrore le stringe il cuore. Non riesce a rispondergli, lo adagia a terra con delicatezza e balza in piedi, i pugni stretti. “Codardo! Non dovevi toccarlo!”

Il Sacerdote ride, le sue mani si infiammano di luce. “Da qualcuno dovevo pur cominciare. Preparati, è il tuo turno.” 

Il sorriso di Ekkeko, così dolce. Il suo fratellino di cuore e rinascita. 

“Tu, preparati!” La voce di Chaska è rombo di tuono, è fuoco il sangue che le pulsa alle tempie. Il suo respiro urla più del vento; le treccine si agitano attorno alla sua testa, prendono vita come i serpenti che ha abbattuto per ottenere il suo potere.

Alza le mani, le dita canini impietosi gonfi di veleno, le braccia spire che non lasciano scampo.

Snuda i denti e colpisce con un ringhio roco, scaglia a terra il Sacerdote; la sua luce lo preme, lo schiaccia contro la pietra finché il pavimento sotto di lui si fessura e cede, liberando un’onda infuocata. La lava lo ricopre, lo inghiotte. Lui urla e urla, la sua sagoma si consuma nel fuoco, scomparendo nelle viscere della terra.

“Mille morti come questa! Mille!” urla Chaska ansimando, le gambe tremanti ancora divaricate in posizione d’attacco.

Non sa cosa sia successo.

Ma era un canale aperto per l’energia più potente che abbia mai sentito.

Ekkeko.

Ekkeko!

È rimasto fermo come l’ha lasciato; si accovaccia al suo fianco, gli accarezza la faccetta magra.

Le sue palpebre tremano ma non si aprono. “Sorellona?”

“Sono io, fratellino. Resta con me.” La sua mano si ferma sulla guancia di Ekkeko. Fredda. “Ti prego.”

“Non posso.” Ekkeko sorride. “Ma è stato bello conoscerti, Chaska. Mi hai fatto arrivare fin qui–” Una pausa, lunga. 

Chaska gli prende la faccia fra le mani. “Tu mi hai fatto arrivare fin qui, ti prego. Ti prego. Sempre insieme, ricordi?”

“Magari.” A Ekkeko manca il fiato per parlare. 

Il caldo delle lacrime le si raffredda sulle guance. “Non puoi andartene.”

“Devo.” Ekkeko sta ancora sorridendo e una rabbia sorda le oscura il cervello.

Non è giusto.

Non ha senso.

Come è capace di distruggere, dovrebbe anche saper aggiustare. 

Non può essere tutto qui. 

Pensa alle mani amorevoli di suo nonno, che la rialzavano dopo ogni caduta. Solleva Ekkeko da terra prendendolo sotto le ascelle, se lo stringe addosso. Esile e tiepido. Zuppo di sangue. 

Per lei. 

Lo stesso amore. 

Lo stesso amoreー

L’universo che ha dentro si incendia, la vampa infuocata del sole li avvolge.

Ekkeko spalanca gli occhi in quella luce.

Una storia del mio best boi Vanja

Scritta per il COWT13, W6, M3

Warning: un hint di incest, un po’ di p0rn ma niente di cui scrivere a casa, tutti su Vanja (in tre)

Sì lo so mancano le virgolette dei dialoghi. Stavolta va così.

5611 parole

Salty Cat

Con Vanja e le gemelle a questo SaltyCat. Pare sia il posto dove essere e abbiamo un tavolo solo perché le gemelle sono note, qui ci hanno fatto anche delle serate. 

Comunque ci hanno ci hanno stipati in un angolo scuro. Sul ripiano tondo del tavolino c’è appena lo spazio per posare i bicchieri. Ho Vanja quasi addosso, Cassie di fronte. Polly affianco a lei, fanno. Impressione. Lo specchio riflesso una dell’altra, due paia di occhi azzurri, identici, fissi su di noi. Solo il colore dei capelli le distingue.  

Stasera si parla di lavoro. 

Allora è deciso, dice Cassie e sorride molto. Alza il suo screwdriver. Alla svolta sap di bloodyVanja. 

Vanja ride, i bicchieri tintinnano al centro del tavolo. Un terreno inesplorato, dice. Spero sarò all’altezza dei vostri standards. Guarda Cassie e lei se lo mangia tutto intero, con un’occhiata sola. Fa una faccia soddisfatta, ci sta; Vanja è molto. Appetitoso: sorrisino trademark, palpebra bassa. Le clavicole sottili sono tutte da succhiare attraverso il colletto semiaperto della camicina nera. 

Non ti preoccupare, comunque. Basta che lasci fare a noi. Dice Polly. 

Già. Cassie sogghigna appena. E che tu sia molto. Arrendevole.  Avvicina il viso a Vanja, appoggiandosi con la mano sul bordo del tavolino tondo; lui protende appena il collo. Cassie fa presto ad affondarci la faccia. 

Nnh, mugola Vanja e le si schiaccia contro, le mette una mano sulla nuca, fra i capelli candidi. Gli ricadono addosso, lucidi contro il nero della camicina. Lui lascia andare indietro la testa. 

Polly ridacchia, Cassie allontana il viso da Vanja. Lui non si muove, mezzo reclinato contro di lei, occhio chiuso; respiro veloce. Ridacchia anche lei, hanno la voce assolutamente uguale, è. Assurdo. 

Mmh, dice sottovoce. Carino. Ssh. 

Gli appoggia due dita sulle labbra; Vanja socchiude la bocca quel tanto per farsele scivolare un po’ in bocca e le succhia e ci ansima un pochino attorno. Cassie ridacchia ancora, accarezza la guancia di Vanja con il pollice e poi toglie la mano. Mi sa che sei tu a doverci insegnarci qualcosa prima o poi. Ma tu nasci submissive. 

Vanja apre l’occhio, si raddrizza un po’ sulla sedia. Non del tutto. Morbido. 

Infatti, dice. Fa un sorrisino. So essere mellifluo. 

Mellifluo. Morbido. 

Vorrei avercelo contro, ora, essere la spalliera di quella sedia e sentire le punte delle sue scapole affondarmi un pochino nel petto. 

Tiepido. 

Cassie mi guarda e mi sa che non sono l’unico a volersi Vanja addosso. Mi sorride e io di rimando, perché a me piace condividere. Soprattutto se c’è Vanja da spartire, possiamo prenderci il merito. Di fargli accelerare il respiro e irrigidire quel meraviglioso tenero uccello roseo. 

Un po’ per uno. 

E poi mi strizza un occhio, dall’altra parte del tavolino tondo; abbiamo Vanja in mezzo. 

Perfetto. 

Annuisco, lei si sporge ancora verso Vanja, gli prende il mento fra le dita, lo solleva. E poi appoggia le labbra sulle sue e Vanja le socchiude ed io. 

Si fa interessante. In fin dei conti può sempre servire. 

Penso quel pensiero, quel punto nero ai margini che a un certo punto diventa enorme ed apre una via. Verso il decodificatore e giù nei cluster di Vinyl. Aggrappati sotto il salso della laguna. 

Mi stringo a Vanja dall’altro lato, anche se siamo già appiccicati, slaccio un bottone della camicina nera e faccio scivolare un po’ verso il basso il colletto,  lo bacio dove il collo incontra la linea dura della clavicola. Bacino e succhiotto, Vanja mugola nella bocca di Cassie, un altro bottone, appoggio la mano aperta sul suo torace tiepido. Vanja affonda contro lo schienale, Cassie gli prende la nuca nella mano a coppa, abbassa di più il viso su di lui. 

Io sbottono e scendo e quando tutto il suo torace candido è esposto fra i lembi molli della camicina, stringo un po’ il gonfio morbido che ha tra le gambe, attraverso la lana fine dei pantaloncini. 

Nnnh. Vanja si inarca, le sue dita mi stringono una gamba. Rimane fermo. A farsi mangiare la bocca da Cassie. Sbottono anche i pantaloncini, Vanja è sempre. Un premio che va meritato. Giù la zip. 

Infilo la mano sotto il pizzo sottile, contro il suo uccello. Umido. Durissimo, mi pulsa tra le dita quando gliele chiudo attorno. Vanja singhiozza, la stretta delle sue dita si rilascia attorno alla mia gamba.

Cassie alza il viso, Vanja rimane con la testa all’indietro, un filo di saliva esce dalle labbra socchiuse. Respira ad ansimi lunghi mentre lavoro nell’ombra, sotto il tavolino, cercando di abbassargli le mutandine quel tanto per liberare l’uccello. 

Che carino, sussurra Cassie e gli dà un bacio all’angolo della bocca. Gli succhia il labbro inferiore. Infila una mano sotto la camicina, prende un capezzolo tra pollice e indice, lo gira un pochino. Con delicatezza, come farei. 

Io. 

Come chi sa trattare le cose preziose. 

Mi piace Cassie, mi piace. Divido molto volentieri. 

Libero. L’uccello di Vanja mi rimbalza in mano, stringo tutta la lunghezza tra le dita, faccio scorrere un pochino la pelle verso il basso. Cassie tira un po’ più forte sul capezzolo.

Ah-hn. Vanja mugola e scivola ancora più giù, quasi sdraiato contro lo schienale alto, imbottito della sedia. 

Bellissimo. Vorrei. Essere nel camerino e togliergli ognuno dei pochi vestiti che ha addosso e baciarlo e leccarlo, dovunque, finché. Non si scorda il suo nome.

Sssh dice Cassie e gli chiude la bocca con la sua. 

Inutile, c’è chiasso al Salty Cat e gente ammucchiata, bicchieri che girano. Anche standogli attaccato faccio fatica a sentire Vanja. Nessuno fa caso ad un ragazzo, bellissimo, che scivola pian piano sotto l’orlo di un tavolino; a due persone chine su di lui. 

Le peggio cose.

Tolgo la mano dal suo uccello, per un po’ di saliva, Vanja si lamenta sotto Cassie, e poi sussulta e mi si aggrappa ancora alla gamba, il respiro gli si blocca in gola, cosa? Mentre gli rimetto le dita attorno all’uccello, incontro. Labbra. Guardo nell’ombra sotto il tavolino; Polly ricambia lo sguardo e poi toglie la bocca dall’uccello di Vanja.

Posso? Chiede e sorride e strizza un pochino la pelle attorno alla punta, fra pollice ed indice. Vanja ansima, più forte.

Certo, le dico e le faccio l’occhiolino, come prima Cassie. Sposto la mano di lato, accarezzo la pelle morbida della coscia e più giù il sacchettino tenero delle palle. So che. 

Polly sorride di più e si china e. Succhia. Su e giù, con la testa.

Hhhnnn. Hnn. Vanja scivola di lato, sfugge alle labbra di Cassie, semisdraiato sulle sue ginocchia, su e giù. Polly è una professionista, l’uccello di Vanja le entra tutto in bocca. Io lo accarezzo da sotto; mi cola saliva sulle dita. 

Questo è. Perfetto. 

Perché così posso far scivolare un dito più indietro, lungo la mandorla di pelle liscia; mi ritrovo sotto il polpastrello il buchino del culo di Vanja. Cedevole quando ci infilo la punta dell’indice. 

Ha-h. Hahn. Vanja rovescia la testa all’indietro sulle gambe di Cassie. Lei ridacchia, gli mette una mano sulla bocca. 

Ssh, dice ancora. 

Stasera il trucco è far star zitto Vanja. Apparentemente. 

Un cameriere di passaggio due tavoli più in là si volta dalla nostra parte, alza un sopracciglio, scuote la testa. 

Ho una mano libera, faccio il segno di ok,. Sta un po’ male. Indico con la testa nella direzione dove Vanja è scivolato quasi sotto il tavolo, ridacchio, strizzo un occhio al cameriere e mi porto l’ok di prima alla bocca, il pollice teso è il collo della bottiglia. Bevuto troppo, dico ancora e alzo le spalle. 

Il cameriere unisce pollice ed indice a cerchio. Capito. Se ne va col vassoio sotto il braccio, fendendo la folla densa. 

Quando mi volto, le dita di Cassie sono affondate in bocca a Vanja. Il suo petto si alza e si abbassa, veloce, inarcato. Riverso contro di lei; gli spingo più in fondo il dito in culo, lui preme contro la mia mano, Polly succhia più veloce. Labbra umide, su e giù, suegiusu, l’uccello di Vanja luccica nella penombra del locale, nell’ombra tonda del tavolino, lui mugola sotto le dita di Cassie, tolgo pianino l’indice e ci aggiungo il medio. Lentamente. E quando sono quasi in fondo mi fermo, Vanja singhiozza, un po’ più fuori, e poi affondo le dita finché posso, e ancora un po’ di più, la carne morbida del suo culetto premuta contro le nocche, e le rigiro dentro di lui e Vanja singhiozza più lungo. 

Mi. 

Distrae, il mio uccello. Premuto contro i jeans. Davvero, vorrei essere la sedia su cui Vanja è riverso, una sedia. Con il cazzo. Almeno ho le dita. 

Affondate dentro di lui, dentro, fuori, sbattendo contro il fresco delle sue mele. Tonde. Finché si irrigidisce tutto e gli esce un gridolino soffocato, un treno di ansiti veloci, il suo culetto si contrae attorno alle mie dita, Polly. Si ferma, la mano stretta sul suo uccello. Deglutisce, labbra strette. 

E alza il viso; l’uccello di Vanja le ricade sul palmo della mano, lei si abbassa di nuovo, lecca la punta pulita. Vanja sussulta. Gli tremano le gambe, in equilibrio precario con la schiena quasi tutta sulla sedia, il culetto sporto oltre il bordo. 

Sempre pensato che fossi un po ‘sprecato per quelle cose che fai, sussurra Cassie guardandoselo tutto. Ora ho la certezza. Prende fra pollice e indice il capezzolino di Vanja, tira un po’. 

Vanja sta ancora ansimando, si copre l’occhio con un braccio. La sua pelle è luminosa nella penombra rossastra. 

Dovete. Essere. Impazziti. Articola, mentre cerca di riprendere fiato. Sotto il tavolo Polly gli tira su le mutandine, oltre le anche strette. Fanno fatica a contenere il suo uccello, ancora un poi’ duro; lembi di pelle rosea occhieggiano sotto il pizzo. Non. 

Io sono debole. 

Mi chino sotto il tavolino, incontro la faccia di Polly. Scusa? Dico e sorrido e anche lei sorride, un po’ di più e si tira indietro. Abbasso la faccia sull’uccello di Vanja, inalo l’odore selvatico della sua sborra, un bacino, un altro, la voce di Vanja è fioca. 

Ti ci metti. Anche tu? Schiaccia il mento sul petto per guardarmi, sta sorridendo. Un pochino anche se cerca di aggrottare le sopracciglia. 

Scusa, dico piano ma infilo comunque la lingua sotto l’elastico delle mutandine, assaggio la punta salata del suo uccello. 

Nh. Per. Favore? Sospira e lascia ricadere la testa all’indietro. 

Solo perché chiedi per favore, sussurro e tiro su i pantaloncini. Chiudo il bottone, la zip. 

Anche la camicina ha i suoi bottoni, minuscoli. Li allaccio uno ad uno finché dal colletto semiaperto occhieggiano solo le linee molto dritte delle sue clavicole.

Vieni su? Gli dico sottovoce. 

Vanja mi sorride. Grazie. Sí. 

Sorride e mi sa che ho una faccia strana. 

Beh? Dice e si aggrappa alla sedia ma non si tira su. Anzi. Scivola un un altro pochino verso il basso e mi trovo le labbra perfettamente allineate con le sue, devo solo. Mi appendo con il braccio alla spalliera. 

Abbassarmi. Vanja apre la bocca, morbida. Calda, mi piace affondarci. Aspettavo. Da prima.  

Cassie china su di lui, io divido. Volentieri. 

Però, un pochino. 

Un piccolo tributo anche a me, che devo guardare sempre Vanja. 

Sfatto. 

All’uccello che ancora preme contro i jeans, che ancora non ha trovato pace. 

Vanja mi si aggancia al collo con il braccio, mi tira più contro di lui, nh. 

Tutto. 

Mi scivola il braccio sulla spalliera, gli cado addosso, Vanja non lascia la presa su di me, non allontana. 

La faccia per respirare. Mi tiene. 

Stretto contro di lui, tutta la lingua in bocca. Nh. 

Ancora. Dita magre sulla faccia. Mi alzo un pochino. Vanja? Va tutto bene? 

Nh. Vanja apre un po’ la bocca, mi tira giù, di nuovo, come. 

Se le nostre vite dipendessero da questo. 

Non. Non mi interessa. Va sempre bene finché c’è Vanja. Che mi stringe contro di lui. Che lascia entrare la mia lingua fra le labbra, mi ansima in bocca. 

Passa un sacco di tempo. Credo. Perché quando Vanja lascia andare la testa all’indietro faccio fatica a respirare. Ritrovo il sostegno della spalliera, riesco a sollevarmi un po’ dal suo torace magro. 

Nh. Vanja rialza la faccia, un pochino, mi accarezza la guancia. Sorride. 

Lo guardo, non. 

Vanja sorride di più. Sempre te, dice. Ridacchia. Che ci avrai, il miele?

Mi sento all’improvviso la faccia molto calda. Meh, dico sottovoce.

Vanja tira su la testa un altro po’, mi appoggia un bacino all’angolo della bocca. 

Sei veramente un idiota. Dice e ridacchia ancora. Alzati, fai. Diventiamo maleducati. 

Penso che forse ha ragione, anche se in fin dei conti è stato lui a trascinarmi qui sotto. 

Tiri il sasso e nascondi la mano, borbotto. 

Vanja alza le spalle. Che ci posso fare. È colpa mia se avevo voglia di un bacino? Sei così. Irresistibile. Sorride e non capisco. 

Mi sembra. 

Mah. Può davvero parlare sul serio. E se no. Perché. Perché? Mi aggrappo alla spalliera, emergo da sotto il tavolino ed ho. Occhi. Addosso. Non solo le gemelle; mi sembra che metà del locale sia voltato nella nostra direzione. 

Discreto non è l’aggettivo di Vanja. 

Ancora faccia molto molto calda; finalmente spunta anche Vanja. 

È scabrosa, dico sottovoce. Vanja si alza in piedi, stretto fra tavolino e muro, un ginocchio sull’imbottitura della sedia.  Da lì guarda tutti gli occhi fissi su di noi, allarga le braccia. Scusate. Dice a voce alta. È colpa sua. Mi indica. Dubito comunque che le sue parole raggiungano più delle dieci persone attorno, ma il sorrisino di Vanja dice un sacco di cose. È irresistibile, dice e mi sa che ho la faccia tipo scottatura e spero che il posto sia molto molto buio come sembra. 

Qualcuno ride e qualcuno fa segno di ok. Vanja si inchina un pochino, ride anche lui, si risiede. 

Sei pessimo, gli sibilo nell’orecchio.

Cassie batte le mani. Incredibile, dice. Anzi, incredibili. Ma che carini. Come fate?

Vanja alza le spalle, si gratta la nuca. Professionalità. Questa è la parola. 

Fa ridere sentirlo da lui, dopo che si è fatto succhiare l’uccello sotto il tavolino di uno dei posti più in vista della zona universitaria. 

Guarda me, poi Cassie; si strofina la fronte. Almeno qui non mi conoscono; dice e sospira. Non so se voi.  

Polly agita una mano, sorride. Tutta pubblicità, e comunque fino a poco fa si stavano ancora facendo tutti i fatti loro. 

È stato quando. Alex ti è caduto addosso, interviene Cassie, ridacchia. Che sfigati, si sono persi la parte succosa. Mi guarda, fa l’occhiolino. A proposito, lo porti il ragazzone, vero? 

Vanja si volta verso di me, sorriso angelico. Non faccio niente senza il ragazzone. Viene col pacchetto Vanja. E comunque è anche quello che gira. 

Ma come? Polly spalanca gli occhi. Eppure gli vediamo sempre tutte e due quelle manone, con cui ti fa cose

Sonda neurale, borbotto e d’istinto la mano mi sale lungo il colllo a sfiorare il punto dietro l’orecchio destro dove lui. Dorme. 

Aspettando. 

Che io pensi quel pensiero gli dia in pasto. 

Me. 

Nascondo le mani sotto il tavolo, sfioro l’uccello che preme, contro i jeans. Di fianco a me, Polly non stacca lo sguardo da Cassie, si morde il labbro inferiore; mi chiedo. Quanto siano bagnate quelle due sotto le gonnelline corte. 

Cosa si faranno a vicenda, quando la serata con noi sarà finita, gambe intrecciate sotto le lenzuola bianche. 

Cosa farò io a Vanja, dopo? Non so. Se avrò il coraggio di allungare le dita verso di lui, se lui si lascerà toccare. Con Vanja mi sembra di non sapere mai niente. Forse finirò nel bagno buio del camerino a farmi una sega. Immaginandomelo nudo e sorridente fra le lenzuola nere del letto. Luminoso.

E io loser. Sempre.

Uh. Vanja scivola un pochino contro lo schienale, allunga la mano verso il suo drink. Tutto sciolto. Tira una sorsata lunga dalla cannuccia. Mi avete distrutto, dice. Pazzi. Si appoggia il bicchiere contro una guancia. 

Polly ride. Mi sembra un ottimo inizio, dice e io mi rendo conto che sto ancora registrando. Interrompo; il puntino si richiude e riposa, al margine. Pronto. Per inghiottirmi tutto ancora e ancora.

Finché ce ne sarà bisogno.

Finché Vanja me lo chiederà.

Nudo e sorridente. Mi sfrego gli occhi, è troppo buio e troppo caldo e non riesco più a stare seduto. Stretto, vicino a Vanja.

Tutto sfatto contro la spalliera della sedia, un sorrisino sazio sulle labbra sottili. Essere submissive ha i suoi lati positivi. 

Vado in bagno, dico. Scusatemi. Già in piedi, puntellandomi sul bordo della sedia; difficile manovrare nello spazio stretto fra muro e tavolino.

Aspetta. Vengo anch’io. Vanja mi prende il braccio. Devo sciacquarmi la faccia. Mi fa tanto caldo. Sguardo a Cassie e Polly, sorrisino. Ci scusate poco poco?

Loro si guardano, ridacchiano. Cassie ci scaccia con la mano. Sciò sciò, dice. Manteniamo la posizione. Non abbiamo fretta.

Non capisco, ma anche Vanja ridacchia e allunga le gambe oltre la mia sedia, il culetto le segue, le punte degli stivali alti raggiungono le piastrelle. Vanja inarca un po’ la schiena alzandosi, la camicina svolazza intorno al suo corpo piccolo. 

Cassie ha la mascella leggermente scesa. Vanja sorride; a dopo, dice.

Lui e il suo maledetto. Film. 

Ventiquattrosette.

Andiamo? Mi afferra la mano, iniziamo a fendere la folla densa e sudata. Tavolini, sedie, piedi da non calpestare, gomiti. E occhi. Molti occhi. Molto truccati, ci guardano tutti, ormai ci conoscono, e a me pare.

Che prima valutino Vanja, che mi trascina attraverso di loro e poi me e poi Vanja ancora, come se. 

La mia qualità è nascosta, penso. E non è un bel cazzo. La mia qualità è peculiare e mi è costata lacrime e sangue. La mia qualità la porto conficcata in testa ed è quello che lui vuole. Quindi smettetela di guardarmi. 

Stringo le dita su quelle di Vanja; lui si gira e mi guarda, sorride. 

Se mi guarda lui mi piace. Alza un sopracciglio. Ci sei?

Sì. Schivo una tipa cicciotta e fuxia e gli sono contro. Vanja alza la faccia, abbasso la mia ed è. Bacio. Bacio, bacino, il braccio di Vanja agganciato al collo, labbra molto. Molto morbide. Profumo di limone e menta. 

E dolore. Dentro i jeans stretti, schiacciato contro la schiena dura di Vanja. 

Mi farai morire, borbotto quando lascia la presa. 

Vanja fa la faccia molto dispiaciuta, le sue labbra si muovono ma non riesco a sentire, troppo casino, voci alte cercando di salire oltre l’acid dub di sottofondo. 

Cosa? Grido ma lui scuote la testa, mi fa segno girando un dito. Dopo gli leggo sulle labbra, stiamo costeggiando il bancone del bar, qui c’è ancora più gente, file per i drinks, la musica ci schiaffeggia dalle casse appollaiate sopra le file di bottiglie. 

Le luci arancioni intermittenti del bancone mi feriscono gli occhi, Vanja mi trascina, al suo passaggio  sembra che la calca si apra, un’ala di denti e bicchieri luccicanti ci scorta al cesso. 

Vanja spinge la porta, il rettangolo di luce gialla è un tunnel per un’altra dimensione. Quando si richiude alle mie spalle, c’è quasi silenzio. Vanja continua a trascinarmi, oltre la ressa del bagno delle donne. 

E poi rallenta, si ferma, puntellandosi sullo stipite, all’entrata per i maschi. Ora devo vomitare per davvero, annuncia a mezza voce. Articola male. 

Uno davanti ai lavandini si volta, Vanja strappa la mano dalla mia e se la preme sulla bocca, piegato in avanti. 

Vanja? Chiedo; lo prendo per le spalle, sembra che stia per cadere. 

Certo mezzo mojito. Tutto sciolto. E Vanja non è tipo da sentirsi male per un pompino sotto il tavolo di un cocktail bar. 

Mmfgh, mugola Vanja dietro alle dita che tiene schiacciate sulle labbra; fa un passo in avanti, un altro, un conato gli incurva le spalle, si blocca in mezzo all’antibagno. 

Permesso?!? Dico a voce un po’ alta, movimento di gente che si allontana, a semicerchio, ma io vedo solo Vanja, il suo collo bianco piegato. 

Mi chino su di lui, lo tengo stretto. Vanja, come va?

Vanja scuote la testa. China. Mano sempre sulla bocca. Lo spingo avanti, verso le due porte dei cessi. Chiuse. Vanja si toglie la mano da davanti alla bocca, respira lungo. 

Meglio? Chiedo. 

Vanja mugola e si riappiccica le dita sulle labbra. 

No eh, gli sussurro nell’orecchio. Vanja si piega un altro pochino. 

Questo è il bagno degli uomini, sento da dietro, e sto per voltarmi quando una delle porte si apre. 

Non è il momento di discutere, trascino Vanja dentro il cesso. 

Veloce. 

Lo posiziono davanti al water, piegato in avanti; con un braccio me lo stringo contro, con l’altro gli tengo la fronte. 

Cos’è che ti ha fatto male? Chiedo a Vanja, chinato si di lui. Non credo che. 

La porta, risponde lui sottovoce. 

La. Porta? 

Chiudila. 

Ma, Vanja. É già. 

A chiave. Dice e spinge all’indietro, tirandosi su contro di me. 

Vanja?

Vanja ridacchia, schiacciandomi contro il legno; perdo un po’ la presa, lui si rigira nel mio abbraccio, ora. Sorridente. Guance rosse. 

Povero Alex, sussurra. Tutto duro. Ridacchia di nuovo, mi mette una mano aperta sulla patta dei jeans, con l’altra cerca dietro la mia schiena. 

Sento il click della serratura. 

Povero Alex, ripete e lavora sulla fibbia della cintura. In punta di piedi, pressato contro di me, appoggia l’altra mano di fianco al mio collo, contro la porta. 

Positivamente. Intrappolato. Pianta la bocca sulla mia; i bottoni dei jeans cedono uno ad uno nello spazio. Esiguo fra me e lui. 

Limone e menta 

Buono. Fresco. 

Perfetto. 

Gli prendo la faccia fra le mani; mi chino e affondo di più la lingua. 

Mmmh, Vah-hahn-jah. 

Dita fresche, dentro i jeans, sull’uccello, mi fa. Male. E bene. Vanja scivola accucciato, tutto contro di me, lasciandomi una traccia di baci lungo il collo, il petto, labbra umide attraverso il tessuto bucato della maglietta di design, finché non ha la faccia all’altezza del mio cavallo. Apre i lembi della patta e. Il mio uccello ha vita propria, vola fuori dalla sua prigione di tessuto ruvido. Atterra preciso sul labbro inferiore di Vanja, sul pezzettino di lingua rosa che sporge dalla sua bocca semiaperta. 

Mmh, mugola lui afferrandolo, tirando  la pelle in su. Fa scorrere la lingua sulla punta tutta esposta. 

Uh. Mi tremano le gambe, devo. Schiacciarmi forte contro la porta.

Nnh, no. Vanja. Così. Mi fai venire. 

Vanja alza la testa, mi guarda di sotto in su, accucciato. Ai miei piedi. È esattamente la mia intenzione, dice sottovoce e mi rimette le labbra sulla punta dell’uccello. 

Vanj. Ah. 

Vanja solleva la testa di nuovo, un sorrisino piccolo, potrei. Solo guardandolo. Ssh. E si china, mi prende l’uccello in. Bocca. Caldissima e. Morbida. Come. 

Mi esce un singhiozzo, dita contratte contro la porta. Devo. 

Restare in piedi è difficilissimo, Vanja ha. Metodo. Ed ogni volta che la sua testa scende, un pezzettino in più. Entra. Devo. Spingo con le anche contro la sua faccia. Non. 

Va bene. Non posso fermarmi, Vanja si aggrappa alla mia vita e mi viene incontro, ad ogni colpo un po’. Più in fondo. Finché non c’è più tempo e gli prendo la testa tra le mani, cerco di tirarlo indietro, non è cosa. Il mio datore di lavoro coscialunga ora non stiamo mica girando ora, non. 

Van. Nh. Noh. 

Mmh. 

Mi stringe più forte la vita, io. 

Non riesco a fermarmi, ora.  

A spruzzi lunghi, nella sua bocca. Mani affondate nei suoi capelli morbidi. Dita magre nella carne, respiro bloccato. In gola. 

Non. Credo di poter stare in piedi. Più. 

Dita ancora. Sull’uccello. Fuori dal rifugio sicuro della bocca di Vanja, comunque sul palmo della sua mano. 

Mi guarda, inghiotte, ridacchia. Ha il fiato corto. Schizzi della mia sborra attorno alla bocca. 

È. 

Bellissimo. 

Scivolo giù accucciato, schiena contro la porta, e siamo occhio negli occhi. 

Meglio? Sussurra stringendo ancora il mio uccello fra le dita. 

Certo. Anche te. A follia. Rispondo ansimando. 

Vanja sogghigna, mi accarezza la faccia con l’altra mano.  Mi sentivo in  colpa, dice. Il mio prezioso collaboratore. 

Si lecca le labbra. Mi sa che sono un disastro, dice. 

Positivamente impresentabile, rispondo. 

Vanja ride ancora. C’è carta almeno? 

Volto la testa. Ovviamente no. Aspetta.

Mi chino su di lui, gli prendo la faccia fra le mani. 

Lecco via il grosso. È roba mia, alla fine.  Yogurt. Salato. Chissene. 

Vanja sorride. Buongustaio, dice. Baciami. 

Obbedisco. Alla mia regina seminuda. Che sa di animale e menta. Qualsiasi cosa per. Questo. Finalmente. 

Capisco. 

Qual è la ricompensa che. Mi serve. Che mi fa. Vivere. 

Nel cesso sporco di un cocktail bar. 

Accucciati uno di fronte all’altro, come bambini, la faccia piccola di Vanja tutta fra le mani. Tutta la sua lingua in bocca. Sa di. Me. 

Alzati,  sussurra alla fine. Dovremmo uscire. 

Annuisco. Non riuscirei a parlare

Vanja si tira in piedi aggrappandosi alle mie spalle; ho le sue cosce bianche all’altezza del naso, me le tiro contro prendendole da dietro, tutte. Nelle mani, ci affondo la faccia. Bacio. La carne morbida di Vanja; sbilanciato, il suo peso addosso  alle spalle, appoggia una guancia contro la mia testa. 

Bacio e salgo e sento il suo uccello. Rigido. Di nuovo, sotto i pantaloncini. Gli dó un morso piccolo, Vanja mi affonda dita dure nelle spalle. 

Smettila subito, sibila fra i denti. Alzo la testa. Sicuro? Chiedo. 

Sicuro. Vanja cerca di scivolare all’indietro, ma lo sto tenendo stretto. Aggrotta le sopracciglia, poi ride. Si, purtroppo. Dai, alzati. Non possiamo stare qui tutta la notte. 

Ti. Piacerebbe? 

Vanja mi guarda, si morde il labbro. Mi dà un bacio sulla testa. Alzati, dice alla fine. Avremo fatto fila. 

Faccio scivolare le mani giù, fino ai polpacci tesi sul piedistallo dei tacchi, attraverso il camoscio morbido degli stivali. Va bene. Rispondo alla fine. Stringo fra le dita carne e pelle ben conciata. E poi lascio la presa e mi tiro in piedi, schiena contro la porta. 

Vanja fa un passo indietro. Come sono messo? Chiede stiracchiandosi addosso la camicina sottile. 

Aspetta, dico. Tolgo con l’indice uno schizzo gelatinoso dal colletto nero, lo asciugo sui jeans. Sei tutto spettinato, dico. 

Mi riabbottono i jeans, l’uccello rientra obbediente nella sua casetta di tessuto. Ha dato. 

Cintura. 

Molle contro la porta, guardo Vanja che si liscia giù i capelli. 

Ci sei quasi, dico. Ma devi toglierti quel sorrisino o non sei credibile. 

Vanja stiracchia un’altra volta la camicina, vedo un’ombra di capezzolo piccolo, rosa, attraverso il nero. 

Non guardare. 

Vanja incurva un altro po’ le labbra. 

Non ti preoccupare, dice. Quando usciamo dalla porta staró nel personaggio. E comunque non ho mica finito con te, dice. Prima ti ho fatto una promessa. 

Cosa, Vanja?

Ma lui sta già girando la chiave, socchiude la porta aggrappato alla maniglia, l’altra mano sullo stipite. 

Aveva. Ragione. 

La fila è decisamente lunga. Vanja si toglie i capelli dalla fronte sudata, si guarda intorno, occhio semichiuso, angoli della bocca all’ingiù, un piccolo martire. 

Meglio. Dice a mezza voce e si aggrappa al mio braccio. 

Uno, un biondastro con una camicia molto bianca, lo squadra tutto mentre passiamo, dagli stivali alti alle guance rosse. 

Gli viene la faccia come se avesse pestato una merda. Ma non ce l’avete una casa, voi? Chiede, storcendo il naso. 

Vanja alza la testa, fa un sorrisino sazio. Troppo lontana, dice e si pulisce l’angolo delle labbra con il dorso della mano.

Il biondastro apre la bocca, la richiude. Mi fai proprio schifo, finocchio di merda, dice alla fine. 

Vanja alza le spalle. Bah, dice. Scusa ma devo andare. Si staranno chiedendo tutti dove siamo finiti. 

Li abbiamo già fatti aspettare un pochino, rincaro. Ridacchio e catturo Vanja per la vita. 

Sayonara bellezza, dice mentre lo sto già portando via. E soffia un bacino verso il biondastro. 

Aspetta. Aspetta, frocio del cazzo, vieni. Sento da dietro, ma siamo già alla porta.  Vanja aggrappato al braccio, faccio il corridoio in tre passi; poi fuori c’è solo casino. E buio. 

Vanja ride, più forte della musica e del vociare attorno. Sei fantastico, mi urla nell’orecchio. Ma ti devo pagare anche come bodyguard?  

Mi ha dato fastidio, quello, gli dico tirandolo avanti, un braccio attorno alle sue spalle strette, l’altro mi serve per spostare persone dalla nostra traiettoria.  

A dirla tutta avrei voluto colpirlo in faccia molto forte, al biondastro. Fargli uscire il sangue. 

Atterrato. Sulle piastrelle sudicie del cesso. 

Frocio del cazzo. A Vanja. Lo stringo più vicino, nella foresta di bicchieri e facce. 

Non sei un frocio del cazzo, borbotto. Tu sei. Bellissimo. 

Vanja alza la testa, sorride. Grazie, gli leggo sulle labbra, sta sorridendo davvero. Parecchio. 

Cazzo. Come ha fatto a. Sentirmi? Ero sicuro. Nel muro solido di rumore che ci circonda. Che non avrebbe potuto. 

Mai. 

Vanja affonda la mano nella tasca dietro dei miei jeans, alza di più la testa. 

Vieni o quello ci riacchiappa, dico trascinandolo attraverso la gente e i tavolini. Non voglio attaccare briga. 

Cioè. In realtà mi piacerebbe ma non sono bravo in queste cose. 

Poi una mano mi atterra sulla spalla. 

Eccolo qua. Sento dire. Mi volto e abbiamo di fronte il biondastro di prima, con tutta la camicia bianchissima. Facile trovarti, con quella benda sull’occhio. Ma chi cazzo sei, il corsaro nero? Sogghigna, e sogghigna anche l’amico suo lí vicino. 

Vanja fa un sorrisino molto divertito. Più Jolanda, dice piano; e poi più forte: volevi qualcosa da me? Ti è rimasta la curiosità? Vanja gli si avvicina, tutto dentro il suo spazio personale; il biondastro fa un passo indietro, Vanja si sporge in avanti, in punta di piedi, occhio socchiuso, labbra protese.

Io potrei essere geloso. Il biondastro non apprezza, invece, ed indietreggia ancora, spinge via Vanja, contro di me. E io ci sono. Ci sono sempre, a prenderlo per le spalle, bilanciarlo sui tacchi a stiletto. 

Beh? Gli dice Vanja, stringendosi contro di me. Ti faccio schifo, ora?

Brutto frocio di. Sibila il biondastro, e carica il pugno. 

Gli afferro il polso, con l’altro braccio scosto Vanja indietro. Avvicino la faccia a quella del biondastro, chiamo un sorriso da figliodiputtana. 

Ce ne ho sempre uno da parte quando c’è di mezzo di Vanja. 

Magari vuoi parlare con uno grande quanto te, gli dico. Vieni fuori. 

Come no! Risponde lui; lo seguo attraverso la porta, il marciapiede è pieno di persone che bilanciano drinks e sigarette. 

Si scostano a cerchio, quando arriviamo; il biondastro ha già la mano stretta a pugno, si piazza di fronte a me. 

Mi abbatte il colpo sulla faccia, ma io sono più veloce, io lo. Sapevo. 

Le nocche del biondastro sono dure contro lo zigomo, un lampo bianco mi chiude la vista; ma anche il mio ginocchio dev’essere parecchio duro, dritto fra le sue gambe, perché quello fa un suono soddisfacente e si piega su se stesso, tenendosi le palle. Poi cade in ginocchio, la testa china, le spalle piegate. 

Quello non ci riprova più. 

Sbatto all’indietro, qualcuno mi tiene in piedi. Morbido, mani, strette, sulle spalle. 

Wow! Ci sai anche fare, allora. Cassie, nell’orecchio. O Polly, vai a sapere. 

Tutto a posto? Voce grossa e corrisponde al tipo che la emette. Mi compare di fronte, tutto fasciato in pelle e vinile, nerissimo, molto. Molto grosso. Molto. 

Alex! Questo è Vanja, tiepido, contro il fianco. Fai vedere, dice e prende la mano che mi sto premendo sulla guancia. 

Faustus! Cassie, dietro di me. O Polly. Finalmente, questa. Merda. Un braccio fasciato di seta bianca indica il biondastro. Quello intanto si lamenta, tutto rattrappito su se stesso. Stava infastidendo i miei amici. Finisce lei. Per fortuna c’era Alex. 

Per fortuna. Vanja mi guarda e mi si fa più addosso, una mano sulla spalla.  Che stronzo. Dice ancora. Mette le dita al posto delle mia, mi sento lo zigomo tutto caldo. Pulsante. Ti fa molto male?

Il grosso guarda me, poi Vanja. La mano che mi tiene sulla guancia. Fa un mezzo sorriso. Scusate per l’inconveniente ragazzi, dice con una smorfia sfastidiata. Questo, qui non ci entra più.” Indica il biondastro con la testa rasata. “I drinks sono a carico della casa. Qui non ci piacciono quelli che fanno stronzate.”

Grazie Faustus, dice Cassie. O forse è Polly

Il grosso le fa un sorriso scintillante si denti candidi. Per te tutto, cara. 

Ci guardiamo negli occhi. La serata è finita, gli accordi presi. 

Sentiamoci per fissare una data e decidere la location. Cassie ravvia la frangia dalla fronte di Vania. La pelle della benda che ha sull’occhio sembra un buco, oscuro. Fondo. Un portale per posti. Pericolosi. 

Vanja le sorride, le prende il polso e si porta le sue dita sulla bocca. Le succhia lentamente guardandola negli occhi. 

Le vengono gli occhi a cuoricino. Non dovrebbe essere legale, borbotta ma sta sorridendo. Toglie le dita e lo bacia sulla bocca. Vanja mugola. 

Ci vediamo presto. 

Se ne vanno sgonnellando, allacciate per la vita. I capelli lunghi che si mescolano fra loro. 

Belle, sussurra Vania, ma te. Te sei meglio. 

Che succede stasera? Non eravamo mai andati al di là del professionale, io. Sono quello che lo scopa. 

Ma solo se sto registrando. 

O se dobbiamo fare una demo volante per due gemelle uscite da un sogno bagnato. 

Vania mi prende per la. Vita. 

Sempre. 

E mi porta via. 

Non ho ancora finito con te te lo ricordi? Sussurra stringendosi al mio. Braccio. 

Chiudendomi. Tutto. Nell’abbraccio del suo occhio, che non è blu e nemmeno viola ed ora sembra. Nero. Un pozzo senza fondo per farmi inghiottire da. 

Lui. 

Vieni. Mi da un bacio sul collo e mi riporta al furgone. Si torna. 

A casa. 

Allora questa è una cosa strana che non so bene da dove venga (e dove andrà), ma ci proviamo.

Una specie di fantasy/steampunk con una coppia protagonista davvero male assortita.

Mi rendo conto di dovere delle scuse al meraviglioso romanzo di Goffredo Parise, che ho adorato a partire dal titolo (appunto) e al quale non sono degna di portare nemmeno le note a piè di pagina

Warnings: age gap, underage, menzione di sacrifici umani e mild torture, heavy petting, prete sconsacrato. Insomma anche qui ci andiamo leggeri.

Please enjoy.

parte 1: sacrificio

Alla fine le luci iniziano a spegnersi. Anche stanotte.  

Stringe un altro po’ le ginocchia al petto, c’è ancora margine. Le abbraccia, mani strette sugli stinchi, ci appoggia sopra la fronte.  

Le sbarre non fanno tanto per proteggerti dal vento. 

Stringe, ancora un po’ ed ora margine non ce n’è più davvero, se l’è giocato subito nel giro di un minuto. 

E comunque non riesce a smettere di tremare ed è. 

Fastidioso. 

E lui non sa per quanto può reggere il fatidio, tutti i muscoli. Stanchi. Si irrigidisce contro il tremito, scudo di se stesso. 

Non cambia mai. 

Poi si ricorda un fatto, tremare è quello che ti salva contro il freddo, per non far fermare il corpo del tutto. 

Chi gliel’abbia detto non se lo ricorda. Ma è così, la tua difesa. Per non morire. 

E lui non vuole morire, per niente. 

Malgrado tutto. 

Anche se. Per far funzionare il trucco il corpo dovrebbe avere ancora un residuo di emergia, ancora. Chissà. 

Tre giorni, gli hanno mangiato via dal corpo altra carne. Già poca.

Attraverso il tessuto fino della tunichina, sente il duro della pietra sotto gli ischi. Freddo. 

Si abbraccia. Trema. 

Sente occhi passargii addosso. Le sbarre non proteggono nemmeno da quelli. 

Aspettano domani. 

Domani. 

Mani legate. Corda e sapone e. 

A preoccuparlo non è forse. La corsa breve del nodo contro il collo, l’aria compressa nei polmoni. Non. 

Lo ha visto fare, dura. Poco. 

È il dopo. 

Appeso. 

E la sua vergogna. Esposta. A tutti, senza remissione. La tunichina tesa, come una vela o peggio. Rimboccata, oltre le anche. 

Senza modo di difendersi, allora. 

Trema più forte. Gli anelli della catena suonano, uno contro l’altro, la cavigliera preme dove il metallo si è mangiato la carne. 

Fa male. 

Ma è solo un dolore un altro. La somma li annulla, o forse il freddo. 

Domani finisce anche questo, non. Non è importante. Basta non pensarci, basta pensare che è come la salita ai templi, sotto la canicola della metà dell’estate. Che pare non ce la puoi fare mai è poi sei nell’ombra fonda dei pini marittimi e anche quest’anno tutto a posto. La sorte è propizia, non capisce. 

Ai templi c’è arrivato, quest’anno. 

Solo cinque mesi fa. 

Gli occhi non lo sanno, gli occhi lo guardano e lo pesano e lui deve sentirlo anche se non li vuol vedere. 

Ma sono sempre meno, sempre meno. La notte è avanti, fra poco tutti gli occhi si chiuderanno sotto le lenzuola. Fino a domani. 

Tutti tranne i suoi. 

E poi passano sue occhi differenti, non sa dire come, solo indugiano. Più a lungo su di lui, gli fanno rizzare i peli sul collo, o forse è una folata di vento più veloce, ma deve. Alzare la testa.

“Che ci fa una ragazzina qui dentro?” Voce di uomo. Adulto. 

Una sagoma scura copre la poca luce dei lampioni, alta, larga di un mantello ampio che gli svolazza attorno. Il lampo bianco di uno sguardo e due mani, che afferrano le sbarre della gabbia. Le.

Piegano. 

Trattiene il fiato. 

Un braccio entra nel varco, ci si aggrappa, si lascia trascinare verso. 

La catena tintinna. Il metallo batte sulla carne pesta. Stringe i denti ma un suono esce lo stesso. Piccolo. Affonda le dita nel braccio; steso a terra, conteso fra il fuori che lo tira ed il metallo che lo vuole. 

Dentro. 

“Aspetta,” si sente dire. Molla la presa ed ambedue le braccia entrano, sono molto lunghe, dita spesse si stringono a pugno sulla catena. Il rumore dello schianto gli toglie il respiro. 

Poi le mani sono sotto le sue ascelle, molto calde attraverso il tessuto fino della tunichina. Lo sollevano piano da terra, lo guidano attraverso le sbarre deformate. Vi si aggrappa per scivolarci attraverso ed è. 

Fuori. 

L’uomo se lo tira addosso, il suo mantello si richiude sul bagliore dei lampioni; sotto è tiepido e sa di fumo di carbone e sudore di fatica e sente davvero, ora. Tutto il freddo che c’era fuori; trema, forte: preme la fronte contro la spalla dell’uomo. Per cercare di smettere e si aggrappa al tessuto morbido della giacca contro cui l’uomo lo stringe.

“Sei gelata,” dice l’uomo. “Che può aver fatto una ragazzina come te per finire li? O sei pericolosissima?” Ridacchia. 

E lui trema più forte. Ragazzina. Ragazzina, non. Finisce mai? Anche per questo. Gli scappa un simghiozzino, allora. 

C’è ancora. Pericolo. Forse. Bisogna studiare un piano, ma le braccia dell’uomo lo stringono, forte, sembra che non vogliano lasciarlo andare mai. Gli piace. Lo fa smettere di tremare, piano piano. 

Vorrebbe che durasse un altro po’, vorrebbe sentirsi. Al sicuro, almeno una volta. 

“Che domanda idiota,” dice l’uomo. “Scusami.”

Lui scuote la testa contro la sua giacca, si rannicchia di più nel caldo delle sue braccia. Zitto. 

Non ti tradire. 

Fermo. Cullato dal passo regolare dell’uomo dal passo regolare dell’uomo dal passo. 

E poi sente rumore, gente. Grida. Da dietro, dalla piazza dove era. Dove prima. L’uomo esita un attimo, cambia direzione. Le voci si allontanano. Poi si ferma, fa mezzo passo indietro. 

“Scendi,” dice l’uomo e la stretta delle due braccia si allenta e lui pensa è finita, è finita ma figurati. L’avrà. Capito.

“Metti i piedi sopra i miei,” dice l’uomo. “Stringimi la vita, stammi addosso. Dobbiamo sembrare una persona sola.”

E lo cala, piano, finché i suoi alluci incontrano il freddo delle sue scarpe ruvide, spesse. Ci si piazza sopra, mette le braccia attorno alla vita dell’uomo, sul fianco destro incontra. Un tubo, duro.

“Attento al fucile,” dice l’uomo sottovoce. Ridacchia. “È carico. Ci sei?”

“Si.” Risponde. Troppo piano e schiaccia la guancia contro la giacca dell’uomo. Morbida. 

“Bene.” L’uomo gli passa un braccio attorno alle spalle,  se lo stringe di più contro. “Ora dobbiamo fare come se ballassimo.”

“Si,” dice ancora. 

Questo lo sa. Faceva sempre da dama a suo cugino, quando doveva provare i valzer. Finché gli è servito. 

La parte del cavaliere lui non l’ha imparata mai. 

L’uomo fa un passo avanti e lui uno indietro. E poi un alto, e un altro. Lentamente. Senza sbagliare. Mai. Le sue ginocchia si infilano precise dove quelle dell’uomo gli lasciano spazio. 

“Fermo.” Una voce. Maschio. Adulto. Poi altri passi che si avvicinano. “Chi sei?”

“Domine vobiscum figlioli,” risponde l’uomo. Il mantello gli si solleva appena attorno, quando il suo salvatore alza il braccio libero.

Qualcuno ride. 

“Un prete?” Dice un altro. 

“Un prete errante.” Replica l’uomo, e abbassa il braccio. 

E lui pensa che forse. Forse per questo ha avuto pietà di lui, ma non durerà. Non può durare, non può esistere un Dio a cui lui vada bene. Figuriamoci gli uomini che lo servono.

“Come mai sei in città?”

“Sono qui per e festività invernali. Il Signore è sempre a caccia di anime.” ‘

L’interlocutore dell’uomo fa una risata canina. “Non è un gran momento.”

Anche l’uomo ride. “Per Dio è sempre il momento giusto. Comunque hai ragione tu, ho avuto poca fortuna. E infatti me ne sto andando.”

“Il giorno prima della chiusura? Domani avremo anche il sacrificio. Non succedeva da trent’anni almeno.”

“A Dio interessa la vita, non la morte.”

“Come vuoi, prete. Un Dio ben noioso il tuo. Puoi andare, alla prossima.”

“Pace figlioli,” dice piano l’uomo. Il prete. “Siate misericordiosi.” Muove un passo, via dal suono delle voci, Lui lascia andare il respiro che stava trattenendo, si aggrappa più forte al prete. Segue, ogni passo avanti, uno indietro uguale.

E poi qualcuno grida, forte. Da più lontano, ma il vento porta il suono alle sue orecchie. 

“Scappato. Il sacrificio è scappato, un uomo col mantello.”

“Fermatelo!”

Passi, di corsa.

“Fermati prete.”

“Si?”

“Certo non sei un prete magro.”

Il prete non si volta. 

“E quella gobba? Tu sei brutto davvero.” Le voci li circondano.”

“Chi sono per discutere la forma che Dio ha deciso di dare al mio corpo?” Risponde il prete. La sua voce resta bassa, e non esita.

E poi una folata di vento forte fa volare il mantello come una girandola, aria fredda gli morde le gambe nude. La schiena sotto la camicina. 

“Il sacrificio!” Sente gridare. “Il sacrificio!”

Gli scappa un lamento acuto, affonda la faccia nella giacca del prete.

“Tieniti forte,”sussurra l’uomo e lui gli si aggrappa alla giacca. Sotto la sua carne è dura. Tesa di muscoli.

E adesso è come un valzer per davvero, due passi avanti, uno indietro, giravolta, aggrappato al corpo solido del prete, il suo braccio stretto attorno alle spalle. Caldo. La mano del prete fruga nelle pieghe del mantello, riesce a vedere il lampo della luce sul metallo. 

Ssh, risponde Saro sottovoce. A te ci penso io.

E poi sono in aria e la gamba del prete si alza, la sua scivola giù, si sente mancare la presa e si aggrappa al prete più forte, ma quel braccio non lo lascia mai e lo stringe contro la giacca morbida e calda, contro la carne solida che sta sotto e che si muove ad ogni movimento del.

La gamba del prete urta qualcosa di duro, un urlo soffocato, un altro. Il sibilo di una lama che vola. 

Il prete atterra lieve sul selciato.

Sotto i suoi alluci il cuoio ruvido delle scarpe è solido e benedetto. Anche se il prete non lo ha mai lasciato andare. Il mantello si richiude attorno a loro come la corolla di un fiore.

Il prete si china, raccoglie qualcosa che fa resistenza. Qualcos’altro. Armeggia fra le pieghe del mantello e poi sale, gli accarezza la guancia. 

“Tutto a posto?” Gli chiede sottovoce il prete, ma già si sentono altre voci, alte. Avvicinandosi. 

“Tutti ti cercano ragazzina. Conviene scomparire finché è libero.” Il prete lo solleva ancora su, contro il petto. Gli si affloscia addosso, tutto il corpo molle come acqua. 

Il prete inizia a correre. 

***

Apre gli occhi. 

Buio. 

Sotto il culo, il pavimento della gabbia è freddo. Gli scappa un suono, da animale intrappolato, allunga le mani, non riesce a vederle. 

Un sogno?

Le sbarre, piegate. La catena infranta ai suoi piedi. Non ha senso. Essere portato via, salvato. 

Non gli viene in mente, qualcuno interessato alla sua sopravvivenza.  Tantomeno un prete grosso, che sa di carbone e viaggio. 

Ritira le gambe al petto, si abbraccia le ginocchia, ci appoggia la testa sopra. La catena tintinna, attorno alla caviglia il peso del metallo è noto. 

Anche il dolore. 

La notte di sicuro è andata avanti, anche se è ancora molto buio. Chissà quanto ha dormito. 

Domani è quasi qui. 

Avrebbe preferito non svegliarsi. Le braccia del prete erano calde e comode. Si stava bene, è. 

Raro. 

Bisogna approfittarne. 

Poi c’è un cigolio nel buio, forse sono già venuti, forse è ora anche se la notte è ancora. Buia. 

Respiro bloccato in gola, si schiaccia tutto contro la. Parete? Non trova sbarre dietro la schiena, ma legno ruvido. 

La gabbia non ha pareti, fa passare tutto. Occhiate e freddo. 

E infatti ora entra, una folata di vento, gli ghiaccia le spalle nude sotto la tunichina. 

Non. 

Si stringe le braccia addosso.

Dove l’hanno portato? Preme la fronte sulle ginocchia non vuole sapere, comunque. È freddo e duro e solitario. Lui si ricorda di affondare la faccia nella giacca morbida del prete. E le sue braccia erano calde, lo stringevano. Come se non volessero lasciarlo mai. 

Ancora cigolare, e questo è il suono di una porta che sbatte e poi passi, verso di. 

Lui. 

Affonda le dita nelle gambe, il respiro gli si blocca in gola, si fa scappare un singhiozzino. Piccolo. 

“Ragazzina? Sono qui, ci ho messo più di che pensavo.”

“Signor. Prete?” La voce gli esce in un sibilo acuto. 

La risata dell’uomo risuona nel buio. 

“Sono io.’ 

Riconosce. La voce, anche. Se l’ha sentita poche volte. 

Allunga una mano, incontra il mantello ruvido, allunga l’altra. Il calore che emana dal corpo del prete è quasi solido mentre si china su di lui, gli accarezza una guancia. “Ma sei gelata di nuovo.” La mano scende, rovente lungo il collo, la spalla. Il tessuto fino della tunichina si raggrinza tutto. 

“Nnh.” Gli esce di bocca un mugolío, non riesce a fermarlo; si aggrappa più forte, alle pieghe della lana, alle braccia solide che emergono. 

“Vieni qui.” Dice il prete, e quelle braccia calde lo stringono tutto, contro il petto, la giacca morbida. 

“Nnh.” Ancora, mentre il prete lo tira in piedi; arriccia gli alluci contro il pavimento freddo, le falde del mantello un peso tiepido sulle gambe nude. Aggancia un braccio attorno al collo del prete, gli schiaccia la faccia contro il petto. “Grazie,” dice, soffocato fra le pieghe della lana. “Grazie grazie. Grazie.” Non ha altre parole, il prete gli accarezza la testa. 

“Ti pare.” Il prete ridacchia. “Mi dà fastidio se fanno male a una ragazzina che non può difendersi.”

E lui si irrigidisce nell’abbraccio dell’uomo. Ragazzina, lui. Dovrebbe essere più che in grado di difendersi, non. Non è così? Invece, trema fra le braccia di un altro uomo.

Un prete.

“Ho detto qualcosa di sbagliato?” Chiede il prete.

Lui scuote la testa. Non si fida. Se parlasse. Gli tremerebbe troppo la voce.

“Allora siamo ancora amici?”

“Si.” Ora risponde. “Si.”

“Bene.” Dice il prete. Anche se non lo vede, gli sembra che stia sorridendo. “Scusa se ti ho fatto spaventate, ma volevo fare un giro fuori. A controllare che fosse tutto tranquillo.”

“Fuori? Dove siamo signor prete?”

Il prete ride ancora. “Signor prete è troppo lungo, chiamami solo Lucas. Siamo nella baracca di un pastore che conosco. Fra poco sarà l’alba, devo riposarmi un po’.” Poi allenta la stretta delle braccia su di lui. “Aspetta,” sussurra. 

Fa un passo indietro, dal calore che emana il corpo del prete. 

L’alba. Si immagina il prete, per tutta la notte, sentieri scuri. Il suo peso addormentato in braccio. Che. Vergogna. 

“L’alba signor prete? Abbiamo. Mi hai portato per tutta la notte?”

Il prete armeggia nel buio, ridacchia, poi gli arruffa i capelli. “Non è che pesi tanto, ragazzina, ma non dormo da ieri.” 

Sente un fruscio, di stoffa che volteggia, poi il mantello del prete gli si avvolge attorno. Pesante. Ancora tiepido del suo corpo, se lo stringe addosso. Sa dell’odore del prete, fatica e fumo 

“Insisto che mi chiamo Lucas. E tu?”

“Se. Uh. Selene?”

“Se non lo sai tu? È un bel nome comunque. Vuoi che ti chiami così?“

Lui china la testa, affonda il mento nel bavero di lana ruvida. “È il mio nome.”

“Bene. Non ti muovere troppo in quell’affare, è pieno di cose strane. Anzi, aspetta—“ La mano del prete gli si infila sotto il mantello, il dorso gli sfiora le cosce nude. Rabbrividisce, si stringe addosso più forte la lana spessa, polso premuto, stretto, sulla sua. Vergogna, vergognosa che cerca di tradirlo, cerca.

Chiude gli occhi. 

Una. Vela. 

Che non è fatta per spiegarsi in mare aperto, per portarlo via in un posto dove. No. Lo conduce solo alla sua propria. 

Perdizione. 

La mano del prete fruga tra le pieghe, lui cerca di restare. Fermissimo, una pietra. 

Senza vita. 

Anche se il cuore gli batte molto forte nelle orecchie. Mentre la mano del prete scivola dietro, nocche contro la curva del culo e su lungo la schiena. 

“Nh.” Soffocato. Stringe i denti. Non. 

Ti far scoprire. 

“Ma dove l’avrò infilato?” borbotta il prete. “Scusami eh?” La mano fruga ancora e poi afferra qualcosa, si ritira. 

“Ecco qui.” Il globo luminoso appoggiato sul palmo della sua mano  illumina la stanza di un riverbero biancastro

Alza la testa, trasale; nella luce che la investe da sotto, la faccia del prete è piena di ombre fonde. Orbite scure che lo fissano, pensa alla guardia, a Selinunte: certo sei brutto davvero, prete. Così aveva detto. 

Non. Che gli interessa, quella è la faccia dell’uomo che gli ha salvato la vita. 

“Meglio?” chiede il prete.

Annuisce. Deve alzare la testa per guardarlo negli occhi, così. Alto. 

“Bene,” Il prete sorride. “Aspetta mi libero un po’ dell’armamentario. Quello sí pesa.” E gli porge il globo luminoso. 

Mai vista una cosa del genere. 

“Uh, signor prete? Cos’è questo?”

In mano è leggero e tiepido, la superficie  cede leggermente sotto le dita sembra di toccare una vescica   

“Una specie di magia.” Il prete ridacchia, sgancia la cintura, appoggia contro il muro un fucile slanciato. Poi si toglie dalle spalle un bagaglio squadrato e scuro. Alto quasi quanto lui. “Uff”, sbuffa e si massaggia le spalle. Stira il collo in avanti. 

Così alto. Alto e magro e molto, molto. Dritto. Un’ombra nera nella luce biancastra. 

Lui fa mezzo passo di lato, deve. Capire. 

Il prete sogghigna. “Cerchi la gobba?” 

Si sente bruciare le guance. 

“N—“ iniza. 

Il prete ride ancora. “Bellina vero?” Si china a frugare nel bagaglio. “Chi dà noia a un prete gobbo?” Poi gli allunga una cosa scura, appallottolata. 

Quando la prende per un lembo si apre in una maglina sottile. Morbidissima. 

“Anche questi.” il prete gli porge dei calzini. Lunghi. “Almeno ti copri un po’.”

Lui guarda i vestiti che tiene stretti in mano, poi su la faccia sorridente del prete. Orbite. Buie. 

“Non posso signor prete te li rovinerei. Sono tutto. Sporco?” Termina sottovoce. 

Addio. 

Gli scappa un singhiozzo strozzato, le braccia gli scattano, su, sopra la testa. Cadono a terra. I vestiti e la luce, un tonfo sordo. Ha già gli occhi chiusi, la faccia chinata. 

Aspettando. 

Il prete si muove, lui cerca di infossarsi di più nelle spalle. 

Ma. Non. 

Mani calde attorno ai polsi, tende le braccia quando il prete cerca di fargliele abbassare. 

“Non ti faccio niente”, lo sente dire e allora cede, in ogni modo. Non avrebbe potuto resistere il prete è. Grande. Molto più di lui, non c’è un. Confronto. 

Apre gli occhi, il prete lo guarda fisso. Sorride. E lo tiene per i polsi. 

“Tutto sporco eh?” Il prete lascia la presa, poi si allunga a recuperare il globo luminoso, glielo mette davanti alla faccia. 

Troppa luce, deve socchiudere gli occhi; ritira indietro la testa. 

“Fatti guardare”, dice il prete sottovoce, gli prende il mento fa le dita, gli fa voltare la faccia a destra e a sinistra. E poi la mano scende, lungo il torace, molto calda attraverso la tunichina fina e si ferma. Lí. Sopra. 

Sopra la sua vergogna e stringe appena, come per essere sicura. 

Si sente le guance molto calde all’improvviso, trattiene il fiato. Stringe le ginocchia, una contro l’altra e cerca di farsi indietro, non. 

Ma il prete ha già tolto la mano e continua a guardarlo fisso. “Per davvero,” ridacchia. “Mi possano. Certo fai una ragazzina niente male.” Ride ancora, gli arruffa i capelli. “È giusto. Nemmeno io sono un prete sul serio. Siamo una coppia perfetta.”

E lui pensa che quello è un prete bello, ciocche scure scompigliate attorno alla faccia e labbra sottili. La guardia a Selinunte si sbagliava su un sacco di cose. Un prete bello. I suoi occhi non sono diventati. Duri. Quando ha scoperto. Ci ha messo la mano sopra. La sua vergogna. Al prete non fa differenza. Sembra. 

Il prete raccoglie i vestiti da terra, glieli porge di nuovo. “Dai mettili. Sei quasi nudo. E sono già sporchi, mi sa anche più di te.”

Viene da sorridere anche a lui, afferrando la stoffa morbida. Il prete gli toglie di dosso quel mantello pesantissimo, se lo rimette addosso. Tira su il cappuccio, siede a terra, contro la parete. 

Sta ancora sorridendo, quando lui riemerge dal groviglio della maglina scura. Ha lo stesso odore del prete. Fumo. Fatica, e gli tiene tutto il caldo addosso. Morbida. Gli arriva a mezza coscia, le mani non sporgono dalle maniche lunghe. 

Il prete ride. “Non sei un ragazzino grande questo è sicuro. Come ti chiami, per davvero?” E ride ancora. 

“Sebastiano. Scusa se ti ho ingannato signor prete.”

“Lucas non ti piace proprio, vero?

“Non so signor prete. Mi sembra irrispettoso.”

Il prete ride ancora. “Tantopiú dicevamo non sono nemmeno prete per davvero.”

“Hai avuto pietà di me come un prete vero.”

“Dev’essere quello.” Il prete socchiude gli occhi, lo richiama con la mano. “Vieni qui.” Indica lo spazio fra le proprie gambe piegate.

Lui cammina fino al bordo del mantello, non. 

“Più vicino.”

“Ma signor—“

“Mmmh. Coraggio. Ho così tanto sporco addosso che farei nero il mare.”

E allora cammina sulla stoffa spessa, che lo protegge dal gelo della pietra. 

“Appoggia le mani al muro. E alza la gamba.” Il prete indica quella con la catena. 

Lui. Obbedisce. 

Il prete gli afferra il piede, ha le dita. Roventi e con l’altra mano stringe sopra la caviglia e gli alza la gamba di più, se l’avvicina alla faccia; sente il suo respiro, caldo sul collo del piede. E la sua bocca vicina, vicina.

“Nh.” Si appoggia più forte al muro.

Uno schianto secco. 

Il prete armeggia, sente la cavigliera scivolare via, la pelle sotto pizzica. E brucia. 

Da giorni. Non. Quanti?

“Meglio?”

Annuisce, testa bassa. Tutti i capelli gli scendono davanti agli occhi. Ansima. 

Libero. 

Si lascia scivolare giú, pietra ruvida sotto i palmi, finché non ha le braccia attorno al collo del prete. In ginocchio fra le sue gambe. “Sei un prete buono,” dice sottovoce, la fronte schiacciata contro il suo sterno. “Non puoi ingannarmi. Hai avuto pietà di me.”

Il prete gli accarezza la testa e poi lo abbraccia. È sempre molto caldo, sembra che non cambi niente anche se lui è un ragazzino. Un uomo. 

“Il mio onore dice di non sopraffare chi non può difendersi. Tu sembri parecchio indifeso.”

Si aspetta una risata, ma non viene. Il prete gli mette l’altro braccio sulle spalle, lo stringe un po’ più forte. “E adesso girati e siediti per bene. Mettiti i calzini.”

“Si.” Si allunga tutto per recuperarli da terra e poi gli si accoccola fra le gambe; la pancia del prete è caldissima contro la sua schiena. 

I calzini sono duri di sudore e sporco, il calcagno gli arriva oltre la caviglia. Stringe i denti mentre il tessuto scivola sulla carne abrasa. Coraggio. Pensa. 

Chiude gli occhi. Deve fare. Piano. Tira su l’orlo, fin quasi a mezza coscia. È quasi tutto coperto ora, anche se il freddo insinua ancora dita ghiacce sotto l’orlo della maglina del prete che lo avvolge in un abbraccio.

Dura molto poco, perché il prete gli chiude addosso i lembi del mantello, vasto. Come una coperta; imbozzolati assieme nel tiepido. E poi lo stringe tutto nel cerchio delle braccia, sotto la lana spessa. 

“Mmmmh,” mugola e si volta leggermente, affonda la guancia nelle giacca morbida del prete, affonda fra le sue braccia calde.  

“Bene?” Il prete gli si riaggiusta contro. 

“Sembra. Un sogno,” risponde lui, sottovoce. 

“Sssh.” Il prete gli accarezza un braccio è. Bello è come essere a casa. “Dormi,” gli dice sottovoce. 

Chiude gli occhi. 

Pensa alla gabbia fredda, al peso della catena sulla caviglia pesta. Al vento freddo che ghiaccia le spalle sotto la tunichina. 

Non mi svegliare. Se è un sogno, non mi svegliare. 

***

Caldo. La coperta imbottita è un peso fisico. Lo fa sudare gli toglie. Il respiro. 

No. 

Non è quello è. La. Mano. 

Ancora più calda. Dita sfiorano. La sua. Vergogna, tutto il sangue. Fra le. Gambe. 

Chi?  

Strappa via la coperta, sotto. Accovacciato fra le sue gambe aperte. 

Saro?

Saro sorride, lo accarezza. Ancora. Saro. È molto bello quando sorride, anche se a lui. Non sorride mai. Ma ora sí, inginocchiato fra le sue gambe. La coperta di traverso sulle spalle abbronzate. Sorride e fa correre le dita. Per tutta. La lunghezza. 

“Saro,” ansima. “Sa-roh. Uh.” Gli si blocca il respiro, inarca la schiena contro il sacco di paglia.

E poi ha gli occhi aperti nel buio e il caldo è il corpo del prete dietro di lui. Dorme, respiro pesante. Il suo torace gli si muove contro. Su. E giù. 

 E la mano che lo tocca. Fra le gambe. 

È quella del prete. 

“Angelo,” mormora il prete nel sonno. “Angelo.” E. Lo tocca. Lì. E la sua vergogna preme. Cercando. Sollievo?

“Nh.” Cerca di farsi indietro, ma non c’è scampo, intrappolato contro la giacca. Morbida. Morbida del prete. Contro la sua mano rovente.

Serra gli occhi forte, forse. Forse se riesce a mantenere il respiro normale, a non pensare.

A cosa. Potrebbe.

Pensa al pavimento duro e freddo della gabbia, alle sbarre che lasciano passare vento e occhiate, non funziona. Qui è caldo e morbido e buio. e gli occhi del prete sono chiusi e la sua mano invitante, basterebbe così. Poco.

“Nh.”

Perché resistere, poi?

Si stira contro il corpo rovente del prete, il suo stesso respiro ansimante gli rimbomba nelle orecchie. Non può. Resistere, non vuole. 

Non vuole. 

Non ora perché sembra tutto così perfetto. Per la prima volta. 

Forse.

Rovescia indietro la testa, la sua guancia struscia contro a giacca morbida, morbida del prete, socchiude la bocca. 

E la mano del prete potrebbe davvero essere quella di Saro, e il buio fitto lo stesso buio che li avvolgeva, nella camerata dei novizi su al tempio più alto. Rimaneva sveglio, ad ascoltare il respiro di Saro addormentato nel pagliericcio accanto al suo, cercando di immaginare il suo profilo nelle ombre lunghe. 

Immaginando. 

La sua mano, come ora la mano del prete. Accarezzandolo. 

Facendolo sentire. Prezioso. 

Ansima più forte, il calore del prete è solido; gli fa abbandonare i muscoli. Uno ad. Uno. Accogliendolo. Contro di lui. 

E si rende conto per un attimo che non c’è scampo, intrappolato. Da quel prete grande e caldo. Che la sua vergogna lo farà sporcare. 

E non può fare niente per impedirlo, non più. Tutto molle contro il petto solido del prete. Braccia pesanti abbandonate lungo i fianchi. 

E la mano del prete che lo accarezza, stringe la sua vergogna intrappolata sotto la tunichina. 

“Nnh haa, signor. Prete.” Ansima e si schiaccia tutto contro di lui e punta i piedi per resistere. All’onda lunga che ora arriva e lo trascina lontano lontano intrappolato nell’occhio del ciclone del respiro veloce. Traditore è il suo corpo, e gli esplode fra le gambe. Tiepido.

Lacrime gli scivolano lungo le guance. Rimane. Fermissimo.  

“Ti. Amo,” sussurra quel prete grande e bello, la voce roca. Di sonno. 

Non è per lui, no. Lo sa. 

Ma suona bene. Uguale. 

Chiude gli occhi, si abbandona al calore del suo prete. Bello. 

È troppo sfatto per resistere. Per pensare ai rivoli tiepidi di seme che gli colano giù lungo le cosce. 

Al sicuro nelle mani del prete.

Dorme. 

Oggettivamente, Thalia e Carol ne sanno meno del giusto di civiltà precolombiane, ma questo non le ferma di certo.

Per il COWT 13 W6 M1 prompt sacrificio, my best girl Thalia sacrifica Carol a Huitzilopochtli. Or something.

Warnings: amore saffico, ultrap0rn (I’m doomed)

Come gli Aztechi

“No va beh dai-“ Seduta sul letto con la schiena appoggiata alla testiera, Thalia ridacchia china sul miniscreen. “Ma come gli vengono in mente certe cose?”

“Cosa?” Spenge il fuoco sotto la moka e si volta verso di lei. “Vuoi caffè?”

“Hm-mh. Grazie.” Thalia scrolla lentamente su e giù.  “Senti qua: una delle teorie sull’altissimo numero di sacrifici umani praticati dagli Aztechi è che lo facessero per sopperire alle endemica mancanza di proteine nobili quando erano all’apice della loro espansione.”

“Eh?” Versa il caffè, porta entrambe le tazzine verso il letto. Thalia sposta le gambe nude per lasciarle spazio. 

Segue con lo sguardo le curve aggraziate delle sue cosce fino al triangolino rosa shocking del tanga di cotone. La pancia nuda, pallida, la magliettine così corta che le lascia scoperto il sotto delle tette. Si lecca le labbra secche. 

“Ti piace quel che vedi?” Thalia fa un sorrisetto presuntuoso. È un pezzo di fica stellare e lo sa benissimo, accidenti a lei.

Annuisce, le porge la tazzina; si blocca, ipnotizzata dalle labbra rosee, lucide di Thalia che si chiudono sul bordo.

Thalia fa un sorsino, ci ripensa. Soffia sulla superficie del caffè, il vapore si sfilaccia. “Cosa ti pare?” Muove il dito su e giù per lo schermo.

“Di che?”

“Di questi che sacrificavano gente per poi mangiarsela.” Thalia la guarda, ridacchia. “Chissà come li cucinavano.”

“A spezzatino. Li sacrificavano in cima alla ziggurath e poi lanciavano giù i corpi così si facevano a straccetto sui gradini.”

“E poi via nel pentolone.” Thalia ride rovesciando indietro la testa. I suoi boccoli lilla svolazzano leggeri, profumano di lampone e idrocarburi nobili. Ingolla il suo caffè in due sorsi e appoggia la tazzina sulla sedia che fa da comodino. 

Bella. Dio, se la mangerebbe tutta. 

“Sai come facevano ad ammazzare tutta quella gente in così poco tempo?” Thalia continua a guardare il miniscreen. 

Cerca di occhieggiare oltre la spalla spigolosa di Thalia, ma si perde con lo sguardo lungo il suo collo bianco e morbido. “No?”

“Era un processo estremamente efficiente. Appoggia quel caffè e dammi una mano.” Thalia si alza e va verso il fondo del letto. “Aiutami a spostarlo?”

“Eh? Ma dai sono stanca.” 

“Non sei curiosa?” Thalia ha quel sorrisetto lì. 

“Vengo.” Butta giù il caffè  e scosta il letto dal muro assieme a Thalia. Cioè praticamente da sola. 

“Mettiti dov’ero io.” Thalia va a frugare in una delle sue scatole. 

Si siede in mezzo al letto, affonda la schiena nei cuscini impilati contro la testiera. Thalia torna con in mano una corda da arrampicata. 

“E quella?” 

Thalia ride alla sua confusione. “Che credi, che quello ci stavano fermi a farsi sacrificare? Infila le braccia fra la testiera e il muro.”

“Ma Thalia—“

Thalia rotea la fune rossa e nera come un lazo. “O insomma non sei curiosa? Mica ti sacrifico sul serio.”

Sì. Da morire. 

Non lo ammetterà mai. Fa un sospiro di sufficienza e obbedisce. Si ritrova tutta inarcata contro i cuscini, esposta. Vulnerabile. Thalia ridacchia e si siede sulle sue cosce. Le lega i polsi alla testiera del letto, le apre tutti gli automatici della camicia jeans con uno strappo secco, fa scivolare verso l’alto il Bra di spandex liberandole le tette. L’aria sulla pelle nuda la fa rabbrividire.

“Legavano il prigioniero ad una pietra triangolare, in modo che porgesse il petto al sacerdote.” Thalia fa correre la lingua sul suo sterno, lasciando una scia fredda e bagnata.

Ansima, indecisa tra la paura, e la pozza di fuoco liquido che le si sta formando e la pancia. Costretta dalle corde, inarcata contro i cuscini. Bloccata. Pronta.

Le si rizzano i peli sul collo. Thalia segue col polpastrello la traccia di saliva, guardandola negli occhi. “E poi. Tagliavano— aspetta. Mi serve un’arma per sacrificarti a dovere.” Le da un bacino sulla bocca e scompare in bagno.

Ma che vuole fare?

Quando Thalia torna ha in mano il Big Black. Venti centimetri di silicone vellutato nero come il male, a nove velocità. Thalia le piazza le ginocchia ai lati delle cosce, temendo quell’aggeggio ritto in mano. “Muori in nome di Huitzilopochtli!” Esclama premendo il pulsante di accensione. 

“Thalia!?” geme. Una paura strana le sale nello stomaco, come se Thalia volesse davvero prenderle la vita in onore di un dio sanguinario. 

Vrrrrrrr

Un ronzio potente riempie il silenzio; l’attrezzo descrive un arco ampio e le atterra sul torace. La fa sussultare. Thalia glielo fa correre in orizzontale fra le costole. “Tagliavano qui, mi amor,” mormora chinandosi su di lei, catturandole le labbra fra le sue, profumate di ciliegia. “E poi estraevano il cuore ancora pulsante con le mani.”

“Nnnhhhh.” La punta del Big Black le si ferma su un capezzolo. Serra gli occhi protendendosi di più verso Thalia, una scarica di piacere le fa cantare i nervi. 

Ma Thalia le sfugge; cerca di inseguila con la bocca e si trova subito bloccata dalle corde che la costringono al letto. 

“Thalia—“ geme. Atterrita, all’improvviso, senza sapere perché. Come se la sua vita stesse per finire davvero. 

Thalia fa un sorrisetto accondiscendente. “Ma come sei ancora vestita? Al sacrificio si arriva nudi. E purificati.” Le labbra che sfiorano le sue senza toccarle e poi la sua lingua, lungo il collo, lungo lo sterno, sull’altro capezzolo, le scappa un verso da animale intrappolato. 

Thalia mugola lavorandosela con la lingua. Una pozza le cola negli slip, butta la testa indietro cercando di respirare, sbatte contro il muro. 

Sbam. 

Dolore. Freddo sulla testa rasata. 

Caccia fuori la lingua; ansima, a corto di fiato. 

Thalia le fa correre un dito lungo la fessura della fica, attraverso il tessuto fradicio degli slip. Le morde il capezzolo, tira.

“Ta-ah.” Le si spezza la voce sul suo nome. 

Intrappolata. 

Liquida, bagnata. Pronta. 

“È arrivato il tuo momento,” le sussurra Thalia in un orecchio; le sue labbra le corrono lungo il lobo. 

Trema sentendosi il fiato di Thalia addosso. 

Il suo pollice le tortura il clitoride attraverso il cotone zuppo. Ogni vibrazione che si scarica sul suo capezzolo le risuona in tutto il corpo. Geme, mordendosi il labbro, si tende verso Thalia strofinandosi sulle sue dita. 

“Sei una vittima riottosa.” Thalia struscia la fica contro la sua, anche il suo micro tanga è fradicio. Si aggrappa alla testiera del letto, si infila in bocca la punta del vibratore. Ansima attorno al silicone nero. 

Vorrebbe solo sbattere Thalia di schiena sul materasso e leccarla fino a farle perdere il senno, ma non può. 

È lei a perdere il senno mentre Thalia si prende il suo tempo. Appoggia il vibratore lucido di saliva dove le loro fiche si strusciano una contro l’altra. 

Un gemito lungo le esce dalle labbra, un’ondata di piacere le riempie la pancia, non può resistere. Thalia le aggancia un braccio attorno al collo, le infila tutta la lingua in bocca come se cercasse di scoparsela anche con quella. Aumenta la vibrazione, le fa contrarre la fica e aggricciare le dita dei piedi, si struscia su di lei. 

E poi si tira indietro. 

“Thaliah—“

Più indietro, le fa scivolare gli slip lungo le cosce, i polpacci, via dai piedi. Le fa aprire le cosce e ci si acquatta nel mezzo. 

Trattiene il respiro, la guarda in quegli occhi grigio azzurri, misteriosi come le profondità della nebbia. 

Thalia sorride. E le appoggia la lingua sul clitoride. 

Sussulta sul letto, alla mercé di quella pazza meravigliosa. 

Leccate lunghe. 

Cede alla punta del vibratore, Thalia glielo infila tutto dentro, una scivolata infinita che la fa singhiozzare. 

Fuori. 

Dentro, ancora fino alla radice, a toccare, più in fondo, quel punto che la manda tutta a fuoco. 

Fuori. 

Dentro. Thalia La scopa senza pietà, la riduce a un ammasso liquido informe che può solo cedere, a lei, alla sua lingua, al cazzo finto con cui la sta sbranando. 

Non resiste. 

Apre di più le gambe, inarca la schiena contro i cuscini, occhi chiusi, versi insensati che non riesce a trattenere mentre viene a cascata, ancora ancora. 

Ancora. 

Thalia insiste. La guida su, su, su. Dura per sempre. 

E ancora un po’. 

E poi Thalia si inginocchia su di lei, struscia la faccia bagnata sulla sua, la bacia e sa di lei. 

“Sei morta,” le sussurra sulla bocca. 

“Uccidimi sempre così.”  Il vibratore ancora dentro la fa parlare male. 

Thalia fa una risatina roca. “Ogni volta che vuoi, babe.” Le prende le labbra fra le sue, le accarezza la faccia. 

“Ora slegami che ti sacrifico io. Ho un paio di dei da placare.” Ride tremulo. 

Thalia ride ancora, le spinge il vibratore più in fondo nella fica. “Pensavo di lasciarti così un altro po’. Non sei morta per bene.”

Thalia la divora con gli occhi, le fa perdere il senno. Ancora. 

Sempre. 

Prigioniera. 

Anche se è la prima volta che Thalia usa le corde. 

Sussulta, si contrae debolmente attorno  al silicone duro. Rovescia la testa all’indietro come una vittima vera, esposta al suo carnefice. 

Thalia la bacia sul collo. “Mi piaci da morire.”

Chiude gli occhi, sentendosi addosso lo sguardo di Thalia. È la prima che le dice una cosa del genere. 

E glielo dice sempre accidenti a lei. 

E mentre il respiro le si spezza in gola, di nuovo, mente Thalia le tira un capezzolo facendola gemere. 

Ancora. 

Un pensiero le esplode nel cervello. Questa è una morte dolce. Così è facile sacrificarsi. 

Ma per Thalia sacrificherebbe tutto sul serio. 

Per il COWT 13, week 6, M1, prompt: “sacrificio” una mini Alex/Save fluffosità

Non potrò mai ringraziare abbastanza Nemi per avermi mostrato la via.

Warnings: bishonen, yaoi, ludicrous amounts of fluffiness

Affittuario

“Se non mi fai pagare l’affitto non ci penso nemmeno.” Alex gesticola, camminando veloce di fianco a lui. La camicia di jeans aperta gli svolazza dietro come un mantello pocket size. 

È troppo carino. 

Forse ha sbagliato a proporgli di occupare la stanza libera dell’ex casa di nonna. Se ce l’ha sempre attorno prima o poi gli salta addosso per davvero. 

“Ma dai, io mica lo pago. Dividiamo le spese. E i turni delle pulizie.”Fa un sorriso malignetto, allunga il passo. Fra dieci minuti inizierà il film e loro sono, ovviamente, in ritardo. Anche se stavolta sono venuti a piedi. Ma Alex ha incontrato chiunque e sua sorella, e si è anche voluto fermare a prendere un caffè.

Altrimenti mi addormento nella poltrona del cinema, aveva detto con un sorriso di scusa, pagando lui.

Che poi al massimo è l’effetto placebo visto che Alex lo prende solo decaffeinato.

A un certo punto ha cominciato a comprarlo pure lui, per avercelo nel caso Alex fosse salito a casa sua. E ha fatto bene, perchè Alex è salito più volte da quella colazione fortuita, ed ha sempre apprezzato la tazzina nera e fumante che lui gli faceva scivolare sotto il naso.

Un caffeinomane posticcio. Gli fa troppo ridere. E ha un profilo troppo carino, con tutti quei capelli scompigliati che gli scendono davanti agli occhi. 

Deve sempre trattenersi per non ravviarglieli via dalla fronte. 

“— un sacrificio per me, capisci?”

Eh? Accidenti si è distratto. Ora deve pure cercare di rispondere. 

“Allora vedi che mi dai ragione?” Dice sottovoce, sperando che sia pertinente alla domanda. 

Alex fa un sorrisino tenero che lo fa squagliare. 

“Ma mi stai ascoltando, Save?”

La faccia gli diventa caldissima. “No“ ammette chinando la testa. Come fa anche ad ascoltarlo? Solo guardare Alex gli cortocircuita il cervello. Ed ora gli sta proponendo di stare sotto lo stesso tetto tutto il giorno.

Abbassa la testa. “Scusa—“ 

Alex ride. “Ma scherzi? Poi niente di importante. Solo che come ti dicevo questo lavoretto da dog sitter che mi sono inventato col vicinato sta andando benino, e quindi pagarti un affitto non sarebbe un sacrificio per me.”

“Non ho intenzione di arricchirmi in questo modo,” borbotta. 

Alex ride ancora, socchiudendo gli occhi. Splende come un giorno di primavera. “Abbozzala Save!” E gli fa gomitino nelle costole. “È che ho pensato che magari invece per te è un sacrificio condividere casa con qualcun altro, se sei abituato ad avere la tua libertà. Insomma volevo farti capire che capisco e che—“

“Ma scherzi?” Si ferma, Alex inchioda di fianco a lui. “A me fa solo piacere. Non te l’avrei proposto, altrimenti.” Come fa anche solo a pensare di essere un peso. Lui. 

Lui è la vita. 

“Pensavo di farti pietà. Ancora con i miei alla mia età.” 

Pietà? Alex gli fa solo sangue. 

Più del dovuto. 

“E allora io che non so nemmeno guidare?” Il suo tallone d’Achille, che per una volta si è dimostrato benefico. Non avrebbe mai conosciuto Alex così a fondo se non si fossero ritrovati per ore imbottigliati in coda. “E comunque non sarebbe per niente un sacrificio. Io–” E lì si blocca perché non sa come continuare. 

Si guarda intorno: stanno bloccando il marciapiede. La gente deve scendere in strada per aggirarli. “Andiamo che stiamo facendo davvero tardi.”

“Finisci la frase.” Alex lo guarda fisso, col fiato sospeso come se stesse aspettando una rivelazione.

“Spostiamoci, almeno.” Prende tempo cercando di formulare un discorso sensato. Un discorso che non lo scopra troppo. 

Alex gli mette un braccio sulle spalle e lo guida verso uno slargo poco più avanti. “Finisci la frase,” ripete guardandolo negli occhi. 

“Io sono stanco di stare da solo, e sarei contentissimo se vieni a stare da me.” Le parole gli escono tutte insieme. “Perchè io–” ti voglio bene. No, aspetta. “Perchè tu–” mi piaci da morire. Nemmeno questa. Si blocca, con la testa impallata, si tormenta le pellicine del pollice. 

Alex gli mette un dito sotto il mento per fargli alzare la faccia. Appoggia le labbra sulle sue, con delicatezza. 

Una scarica di elettricità gli corre per tutto il corpo. Chiude gli occhi. Si lascia abbracciare. Si perde nella bocca dolce di Alex.

Alex lo prende per la vita, lo fa girare nella direzione da cui sono venuti. “Andiamo.” Ha la voce molto bassa.

“Ma il cinema è di là?” Non ci sta più capendo niente.

Alex sorride, se lo tira contro. “Andiamo alla mia ex casa a fare qualche scatolone.”

Lo guarda. “Ma allora–”

“Accetto.” Il sorriso di Alex diventa sornione. “Ma devi lasciarti scarrozzare dappertutto.”

“Sul serio??” Un inno di vittoria gli risuona in testa, Guarda Alex e deve fargli una carezzina sulla guancia, per essere sicuro che sia lì per davvero.

Che non si sta immaginando tutto, da quello svalvolato che è.

La pelle di Alex è tiepida. Gli piace toccarlo. L’idea che ce l’avrà sempre sottomano lo terrorizza e lo fa impazzire. 

C’è solo una cosa che non gli torna. “Dappertutto con te mi va bene. Ma facciamo che ti procuri una bici e ci andiamo assieme?”

Per il COWT 13, week 6, M6, un drabble da 400 paroletti precisetti e con questo sono finite le dribbles. *sad*

Fandom: Saint Seiya, e nello specifico Hyoga/Shun

Warnings: nessunoH yay!

Questa è una missing scene ambientata durante l’assalto al castello di Geist. Ngl alla fine Hyoga si presenta al castello con uno Shun messo malissimo aggrappato al collo. The UST is real (USTi)

Please enjoy

Più di quanto sembri

E poi finalmente è di nuovo in grado di muoversi e se si concentra sente il proprio Cosmo rispondere, fioco. Ma presente . Si alza a fatica su mani e ginocchia: deve andare. I suoi compagni lo stanno aspettando.

Gli serve puntellarsi ad un masso per rialzarsi, gli ci vuole più del dovuto: lo scontro contro Sea Serpent lo ha danneggiato più di quanto credesse. E poi quegli insetti malefici.

Non fosse stato per Shun.

Risente ancora nel naso il profumo buono dei suoi capelli, mentre Shun lo trascinava su per il pendio scosceso della montagna. C’è molto più in Shun di quanto il suo corpo esile ed il suo viso gentile dimostrino.

Oggi è solo un’altra conferma.

Segue il sentiero che si addentra nella Foresta della Morte. Non sa cosa aspettarsi: ha sentito fin da lì il Cosmo dei suoi amici brillare, e affievolirsi, ma non incontra nessuno fino al fiume. Si tuffa, si lascia portare dalla corrente nuotando sotto il pelo dell’acqua; la sua spalla urta contro un oggetto galleggiante, un tronco.

Una figura che vi si aggrappa disperatamente, un riflesso di metallo rosa nella semioscurità.

“Shun!” grida, aggirandolo con due bracciate.

“Hyoga—“ La voce di Shun è un sussurro fioco. Cerca di riassestare la presa ma sta scivolando sott’acqua piano piano.

Prende Shun per la vita, se lo stringe addosso. Al sicuro.

Lui cerca di divincolarsi. “Ce la faccio. Corri ad aiutare Seiya, anche Shyriu è gia andato.”

“E ti ha lasciato qui?”

Shun annuisce, i suoi capelli bagnati gli sfiorano la faccia. “Gli ho detto che stavo raggiungendo la riva. Vai anche tu, ci rivediamo al castello. Non voglio rallentarvi.” Cerca di riguadagnare la presa sul tronco, ma gli sfugge. Le braccia gli ricadono nell’acqua.

Shun non sa nuotare.

“Non dire stupidaggini. Andremo insieme.”

“Hyoga—“

Stringe i denti. “Vuoi morire, Santo di Andromeda?”

Shun tace; si lascia tenere a galla, immobile nelle sue braccia. Lo fa voltare, gli occhi di Shun luccicano nella semioscurità.

“Hyoga,” Shun fa un gemito fioco. “Sono stanco di dover essere salvato.”

“Eppure tu stesso mi hai salvato poco fa.”

Shun sussulta contro di lui.

“Ti porto a riva. Aggrappati.”

Le braccia di Shun gli si avvinghiano al collo. “Grazie,” sussurra abbassando la testa. La frangia madida scende a coprirgli il viso.

Non risponde, mentre fende il fiume trascinandosi dietro Shun.

Ora sono pari. 

E comunque sarebbe morto, pur di non lasciarlo indietro.